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VIA VITTORIO VENETO – “Dove il mio tempo fu spazio”

di Maria Paola De Maggi

VIA VITTORIO VENETO

“Dove il mio tempo fu spazio”

Queste sono la mia casa e la mia via, dove ho vissuto fino al 28.07.2001, data del mio matrimonio che segna un confine sottilissimo, ma molto netto, tra la bambina e poi ragazza, e la moglie e poi mamma. Qui ho fatto trascorrere notti insonni ai miei genitori, qui ho mosso i miei primi passi, sempre qui ho riso, pianto, cantato e litigato. Questa casa, ora purtroppo disabitata poiché dichiarata inagibile dopo il terremoto dell’ottobre 2016, e ogni sua stanza, ogni suo angolo, rappresentano i “luoghi” con i quali sono cresciuta e vivono ancora dentro di me.

I miei genitori mi adoravano, poiché ero l’unica “femmina” dopo due fratelli e tanti cugini e, forse, anche perché ero arrivata un po’ “a sorpresa”. Nonostante fossi nata leggermente prematura, avevo volontà da vendere, ero piccolina ma determinata fin da subito. E questa bambola, che ora appartiene a mia figlia, mi fu portata in ospedale e regalata dai miei fratelli, il giorno della mia nascita.

Eravamo sei in famiglia… io, mia nonna, i miei genitori e i miei due fratelli, entrambi più grandi di me. In quanto tali, hanno goduto del diritto di condividere una stanza tutta per loro; io, invece, ho dovuto “dividere” il mio spazio. Eppure, la presenza costante di mia nonna non ha limitato in alcuna maniera, né durante l’infanzia né durante l’adolescenza e oltre, il mio desiderio di arredare, colorare, decorare con foto, poster, piccole bacheche di legno e, perfino, creare disordine. Ho collezionato cartoline, biglietti di auguri, tappi di sughero su ognuno dei quali ho trascritto la data e la ricorrenza, e qualsiasi altra cosa mi permettesse di fermare un attimo od una sensazione. Ogni singolo oggetto mi riportava ad un preciso momento vissuto. La smoderata mania di conservare aveva un obiettivo ben definito; rendere eterna ed incancellabile una parte importante della mia vita… quella prima del matrimonio.

13 luglio 1981. Avevo quasi undici anni ma mi sentivo già grande, troppo grande per “portare” ancora le trecce; presi così l’ardua decisione di tagliare i miei lunghi capelli neri. Nonna Concetta adorava spazzolarli di sera e avvolgerli in uno chignon di mattina, prima di accompagnarmi a scuola; ricordo ancora, con nostalgia, il lento e paziente gesto delle sue mani che sceglievano con cura il pettine o la spazzola più adatta e, soprattutto, la sua voce, forte e dolce allo stesso tempo. Abbiamo condiviso la camera da letto per trent’anni; avevamo un legame talmente profondo ed indissolubile che decisi di conservare quella treccia che lei, per tanti anni, aveva amorevolmente curato.

Abitavo in pieno centro storico. Ricordo ancora il chiasso del quartiere, il rombo delle macchine, poche a quei tempi, il suono delle campane che circondavano, e circondano tuttora, la mia vecchia casa, il fragore delle saracinesche della tabaccheria, della macelleria, del forno e delle altre botteghe; ma il rumore più bello era l’interminabile vocio delle persone che, sempre di fretta, dalla mattina presto fino a tarda sera, attraversavano la via per raggiungere le scuole, gli uffici, i negozi o i ristoranti. In quegli anni si viveva per strada, si conversava e ci si guardava negli occhi, senza “selfie”, senza sms o mms, senza messaggi vocali. Si annotava tutto su piccoli diari segreti, dalle semplici avventure quotidiane ai testi delle canzoni, dalle foto dei cantanti che ci facevano sognare alle frasi di quel ragazzo che non avremmo mai voluto dimenticare.

Mio padre provava per me un amore infinito, senza limiti, del quale, sinceramente, non ho mai approfittato, pur potendo. Lui adorava la musica e, anche per questo, all’età di sei anni, mi iscrisse ad una scuola privata di musica. Iniziai a suonare con un violino industriale, successivamente me ne fu regalato uno di ottima fattura, artigianale, che produceva un suono più gradevole ed armonioso. Mi iscrissi all’Istituto Braga e lì studiai per diversi anni. Mi emozionavo per ogni saggio o concerto, dovunque essi si tenessero, a Teramo o fuori regione. Mio padre trascorreva ore con me ad ascoltare il disco che avevamo scelto insieme o le arie delle operette che lui adorava. Mi stava vicino quando studiavo il violino e mi aiutava a sistemare gli spartiti, i libri di solfeggio ed il leggio. Io suonavo per lui e cantavo le sue canzoni preferite; l’intera atmosfera familiare era, inevitabilmente, influenzata dalla nostra felicità.

Gli anni volano, ma è indiscutibile che l’unico vero patrimonio che possediamo, e che nessuno può rubarci, è il nostro passato. Ogni tanto mi fermo a pensare ed a cercare, nei miei ricordi, qualsiasi pezzettino che possa ricomporre l’intero puzzle. Mi ritengo brava e fortunata per aver conservato tante piccole “cose”: biglietti di cinema e concerti, inviti a feste e matrimoni, ritagli di giornale e intere riviste. Spulciando attentamente dentro ad una scatola di cartone, ho notato un cartoncino rosa sbiadito e, con un tuffo al cuore, ho letto che rappresentava l’annuncio della mia nascita da parte dei miei fratelli !

Avverto, con crescente consapevolezza, il trascorrere degli anni, ma non è questo ciò che mi crea nostalgia, bensì la mancanza fisica di amici o parenti che hanno lasciato un segno importante nella mia vita. Mia mamma mi ripete sempre le parole che il mio papà, in cielo da qualche anno, pronunciava con orgoglio e con il petto gonfio di felicità quando parlava di me. Il 12 settembre 1983, giorno del mio onomastico, mentre ero in vacanza dai miei zii a Sulmona, mi fu recapitato un telegramma: puntuali come un orologio svizzero, erano gli auguri dei miei genitori, addirittura in latino! Oggi, solo il toccare quel foglietto e il sentire l’odore della carta mi riportano esattamente a quel momento in cui mi fu letto il messaggio di auguri. Subito non ne compresi il significato, ma lo stesso mi fu prontamente tradotto da uno zio che ora non c’è più e che abbraccerei volentieri, anche per una sola volta ancora.

Ma con me c’era sempre lei, mia nonna. Presenza costante e mai ingombrante, tenera sempre, minacciosa e severa se necessario. Era lei che mi accompagnava a scuola, che preparava i miei piatti preferiti, che acquistava un “Topolino” da leggere quando ero a letto con l’influenza, che mi cuciva ogni anno il vestito di Carnevale, che mi spronava a studiare il violino quando non ne avevo voglia, che mi allacciava le scarpine da ballo, che mi faceva sedere accanto quando usava l’uncinetto o quando ricamava. A 10 anni ero già molto brava nel realizzare centrini, sottobicchieri, tramezzi per tende e lenzuola. E’ una passione che non ho mai abbandonato e che mi ha poi permesso, in età adulta, di confezionare copertine e bomboniere per i miei figli. Non so se riuscirò a trasmetterla a mia figlia; so però che, negli inevitabili momenti di difficoltà che la vita mi ha riservato, è riuscita a riempire pomeriggi vuoti, a spazzare via le nuvole della tristezza ed a farmi ritrovare il sorriso.

In via Vittorio Veneto, gli anni sono passati velocemente. A 21 anni, è arrivata un’occasione di lavoro, ottima ma, ahimè,… a Bologna ! Non avevo mai lasciato casa, se non per brevi periodi o per trascorrere qualche giorno con i miei cugini di Sulmona; ma era arrivato il momento di fare la valigia e di assumermi le mie responsabilità. In Emilia ho trascorso due anni splendidi, sì da pendolare del fine settimana, ma insieme a persone meravigliose che non mi hanno mai fatto sentire sola o lontana da casa, e delle quali conservo ancora un ricordo affettuoso. Prima che rientrassi definitivamente nella mia città, i miei colleghi vollero regalarmi qualcosa che mi costringesse a ricordarmi di loro, ogni volta che avessi avvertito la necessità di sapere che ora fosse: un orologio “colorato” così come, a loro dire, era la mia vita.

Pare porti fortuna… Lo trovai in un parco, casualmente, mentre passeggiavo per le vie di Bologna nel 1991, l’anno del mio primo impiego. “Allora…nel lavoro…sarò fortunata…” pensai, ed ebbi ragione: assisto a scuola bambini e ragazzi disabili, che di fortuna non ne hanno avuto tanta, ed amo il mio lavoro. Anzi, a dirla tutta, non sono solo io ad insegnare loro qualcosa, ma sono soprattutto loro che, quotidianamente ed inconsapevolmente, mi spiegano cosa siano la gioia e la bellezza in un sorriso.

Con il mio fidanzato, ho iniziato a sentire la necessità di viaggiare, di conoscere altre strade, altre piazze, altre città, altri piatti da gustare, altri mari, altre culture, altre lingue, altri cieli, altre montagne…altri continenti. L’aeroporto è diventato un luogo familiare. Da ogni Paese visitato, nel quale ho lasciato tanta parte di me, ho portato via molti oggetti: il quotidiano più venduto, un capo d’abbigliamento tipico, prodotti di artigianato locale, vini, strumenti musicali, cianfrusaglie vendute sui banchi dei mercatini, brocche, tazze e tanti, tanti bicchierini, uno per ogni città visitata… Solo di Auschwitz non ho voluto conservare nulla, neanche una foto. Tuttora espongo a casa questi “souvenir” grazie ai quali, io ho ricordi costanti di giorni straordinari andati via con le loro albe e i loro tramonti, ed i miei figli hanno compreso che non esistono razze se non una, quella umana, che la diversità del colore della pelle è uguaglianza di cuore, che la storia dei popoli in generale, e dei ragazzi in particolare, è diversa a seconda delle latitudini e delle longitudini, ma che il sogno di tutti, unico ed universale, si chiama FELICITA’.

A volte, guardandomi indietro, provo a capire la bellezza dell’innocenza e della purezza di quegli anni. A volte mi chiedo come riempivo le mie lunghe giornate da bambina o da adolescente. A volte penso alle risate davanti ad un cartone animato. A volte rivedo mia nonna, affacciata alla finestra, ad aspettare il mio ritorno da scuola. A volte ricordo i disegni delle tovaglie con le quali apparecchiavo il tavolo della cucina. A volte, quando la sera andava via la luce, mi riunivo con la mia famiglia in tinello davanti ad una candela. A volte mi infastidivo quando un ospite si sedeva al mio posto per cenare. A volte correvo per le scale quando sapevo che i miei genitori stavano tornando dall’ufficio. A volte la nonna preparava la polenta e poi la stendeva sulla tavola di legno ed ognuno di noi delimitava, con la forchetta, la sua quantità da mangiare. A volte i miei fratelli rubavano le mie bambole. A volte, durante la trasmissione dei quiz televisivi, si faceva a gara per rispondere per primi. A volte mio padre e mia madre ci portavano in montagna d’estate. A volte alzavo tutto il volume dello stereo e cantavo a squarciagola. A volte, quando rientravo tardi la sera, pregavo la nonna di non dirlo ai miei la mattina successiva. A volte mi chiedo se sono stata felice in quella casa e se volessi tornare indietro per poter riviverci un solo giorno. A volte penso che non è giusto avere due famiglie, quella d’origine e quella che si forma con il matrimonio, perché l’amore è indivisibile. A volte guardo i miei figli, penso a mia madre e cerco di ricordare tutti i suoi insegnamenti. A volte, nelle giornate tristi, mi torna in mente il sorriso di mio padre e provo una fitta allo stomaco. A volte mi chiedo se tutto quello che ho conservato possa descrivere la bambina, la ragazza e la donna che sono stata, affinché un giorno i miei figli capiscano che la vita è fatta di attimi, belli o brutti, ma sempre degni di essere vissuti. A volte, quando guardo questi braccialettini e questi “primi” dentini caduti nel giorno indicato, mi chiedo se ci sarà qualcuno che mi somiglierà e che ripeterà le mie parole o i miei gesti anche quando non ci sarò più. Ma questa è tutta un’altra storia…


 

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