Due catene di flashback, lunghi trent’anni, che si snodano parallele, come spire di un dna fantastico, attorno alla colonna vertebrale del protagonista fino a fondersi in un finale teso come il cavo che sostiene un ponte e morbido come l’abbraccio di un bambino; un’incursione a metà fra l’apocalisse e il nirvana in cui la poesia si attorciglia al linguaggio medico per un esito tutt’altro che scontato. Un tentativo, all’ultimo respiro, di sanare la dicotomia fra l’attraversare quest’epoca asfittica rendendosi invisibili e la necessità di mostrarsi per chiedere un aiuto nel mitigare dolori divenuti insostenibili. Così l’incontro con operatori di diversa formazione e sensibilità, accomunati dal fatto di rappresentare l’ultimo anello di una catena a cui si appigliano persone in cerca di un sollievo antalgico, si trasforma in traversata epica tra sofferenza, disperazione ma anche leggerezza di decenni passati nel tentativo di non fare i conti con una malattia che rende la vita più complicata di quanto uno possa immaginare. Nell’illusione di poter ovviare così all’inevitabile, ossia spararsi o, con scelta più poetica, semplice e probabile, mutuata da Levi e Lucentini, buttarsi dalla tromba delle scale. Non prima però di aver trasformato il viaggio in qualcosa di buffo, misteriosamente buffo, con ex-ploit degni del miglior Woody Allen e la consapevolezza, maturata negli anni, che l’unico modo per sopravvivere sia prendersela a ridere, utilizzando come centralinisti, infermieri, medici, accademici, terapisti, trainer o sciamani urbani incontrati in frequentazioni assidue di palestre, ambulatori, studi medici e reparti ospedalieri.